Cappella dell'Immacolata, Seminario di Nostra Signora della Concezione, Braga.          

                          

Opera dell’Architetto Antonio Jorge Cerejeira Fontes, 2015[1].

 

Arch. FRANCESCA LETO

Foto: Arch. Francesca Leto – Arch. Massimiliano Valdinoci

 

In una calda e assolata tarda mattinata di ottobre ci dirigiamo verso il nord est della città al di là dell'isolato della facoltà di teologia di Braga. Un lungo edificio bianco di tre piani, degli anni '50 del novecento, con le cornici delle finestre, lo zoccolo e qualche partizione verticale in granito grigio, come d'uso in queste zone del Portogallo, si distende di fronte a noi, verso sud. Entriamo da un cancello che precede l'angolo nord dell'edificio, circondiamo quella che è immaginabile come abside della chiesa e varchiamo una porta che immette in un chiostro. L'aspettativa di un arrivo in una soglia significativa non è tradita poiché sapevo che si trattava della chiesa di un seminario minore che non aveva una facciata. Questo arrivo, fatto di percorsi quasi tortuosi, amplifica le emozioni legate all'attesa. La sequenza del percorso è caratterizzata da soglie obbligate che man mano lasciano intuire e intravedere lo spazio della cappella. Il chiostro è caratterizzato da un corpo a "C" finestrato e di colore grigio scuro che poggia su tozzi pilastri che creano un portico. Ulteriori pilastri metallici a sezione quadrata sono innestati di fronte a questi e tendono una rete sulla quale si arrampica, da non molto tempo, una vite americana qua e là tinta di rosso acceso. Il cortile nel lato a nord è interamente occupato da una grande vasca d'acqua con la fontana al centro delimitata da un bordo in acciaio Cortain. Dal terreno ricoperto in Macadam spuntano dieci alberi allineati ai pilastri e paralleli ai lati est e ovest. Tutto questo si presenta come una soglia "spessa" densa di esperienze visive, uditive, olfattive e anche tattili. Proprio alla mia destra, lungo il alto ovest del chiostro, si aprono le vetrate e porte finestre che danno luce alla cappella. Ma pesanti tende, di pregiata stoffa, impediscono quasi del tutto la vista all'interno e comunque evito accuratamente di sbirciare: le sorprese vanno alimentate. Entriamo alla nostra destra in un atrio sul quale si aprono tre porte intervallate da quattro pareti con ceramiche policrome di precedente fattura. Varchiamo la porta centrale. Lo stupore è tale che devo contenere l'emozione. Mi trovo in mezzo ad una sorta di foresta di pilastri e puntoni lignei che sorreggono un soffitto di travi lignee di sezione snella che formano un cassettonato con passo variabile. Luci e ombre dalle tonalità calde sembrano rincorrersi in uno spazio che è tutto un fremere, un agitarsi. Se Arnold van Gennep potesse percorrerlo credo che direbbe che si tratta di una perfetta messa in opera del passaggio verso uno spazio liminale. Di questa sorta di boschetto si coglie chiaramente il confine; come a dire che si tratta di una transizione e come tale conduce ad altro. Al centro di questo spazio, si apre una “radura” su cui, verso sinistra si innesta un “albero” con una sezione considerevole: è un pilastro lapideo grigio, irregolare, a tratti lavorato a piano di sega, in altri lati appare scabroso, quasi fosse stato spaccato in cava, e sale aprendosi un varco nel cassettonato. Da un lato, vi è incassata una piccola lastra rettangolare in pietra bianca sulla quale è scolpito un orecchio. Sotto a questo è posta una sedia a indicare che questo è il luogo dell'ascolto, il luogo in cui alla domanda del Padre, "Dove sei?" (Gen 3,9) è attesa la nostra risposta. Sulla destra, scavata sulla sommità di un blocco lapideo grigio con due lati levigati e due a spacco, un'acquasantiera. Nei pressi è posto un cero pasquale, quasi quell'acquasantiera fosse la memoria di un fonte battesimale.

 

Ai lati le nude pareti in blocchi irregolari di pietra ricevono una luce radente dall'alto che s'insinua tra queste e l'apparente leggerissima volta in calcestruzzo armato, quasi fosse sospesa alla copertura. Alla fine del libro che Rudolf Schwarz scrisse nel 1938, Vom Bau der Kirche, viene presentato il settimo e ultimo tipo, che egli intitola Duomo di tutti i tempi. L’intero. Nel descriverlo, egli parla di “tre grandi elementi. Il primo e l’ultimo sono imperniati nel tempo, frammezzo scorre la via e, là dove essa abbandona la forma centrale e là dove sfocia nell’altro, risultano situazioni di trapasso, di partenza e di ritorno in patria. Come due parti aperte, le due forme terminali si dirigono l’una nell’altra, una all’uscita e l’altra all’approdo, e in mezzo si stende la via della vita”[2]. Nel libro viene illustrato anche questo tipo e non si può non associare questa chiesa a quello schema di Schwarz. Non solo, la parte centrale, rappresentata da una serie di parabole equidistanti, rappresenta   e riprende il quarto tipo, Il sacro viaggio. Il cammino. Una delle figure di questo tipo, mostra gli anelli parabolici come nastri alternatamente ciechi o assenti: “Allora a ogni passo è assegnato il proprio portale e dietro ogni portale v’è un po’ di luce”.[3] Ecco allora che percorrendo la navata con lo sguardo teso verso la volta a botte che s’interrompe a tratti per far intrufolare la luce attraverso sottili tagli che si addensano alla partenza e all’arrivo, la mente corre a recuperare tra le stanze della memoria le immagini di quelle figure del libro di Schwarz che qui hanno preso concretezza. Le catene della volta, le lampadine che pendono da lunghi cavi, le file di sedie, tutto contribuisce alla scansione del mio incedere. Il ritmo spaziale accompagna quasi accentuandolo il ritmo del tempo. La luce, dunque, naturale e artificiale si unisce alla costruzione dell’esperienza: i sottili giochi luminosi della copertura simulano l'insinuarsi del cielo qui sulla terra e quasi rapiscono lo sguardo verso l’alto. Un cielo sospeso, apparentemente etereo, sembra aver cura di coloro che abitano lo spazio sottostante. Esso non ha funzione nel senso funzionalista del termine; non sostiene nulla, ma anzi è sostenuto. Il suo fine è simbolico, assolutamente non allegorico e per questo “agisce” senza dovere essere spiegato. Il concetto di funzione entro lo spazio sacro non coincide esclusivamente col “dare la possibilità al fruitore di poter agire o usufruire di un luogo o un oggetto in un certo modo”. La volta, così strutturata, infatti sta lì col compito di “piegare” la nostra esperienza percettiva; se non ci fosse, lo spazio sarebbe completamente diverso. Nella parte basamentale, costituita dalla muratura di pietra nuda, il ritmo è anch’esso scandito: Via crucis a sinistra, Via lucis a destra di Lisa Sigfridsson e poi dalle tende bianche che velano le grandi aperture. Queste, tessute a mano in lino misto alla lana, non sono evanescenti e non lasciano trasparire ciò che si trova oltre, restano parete pur nella loro luminosità.

 

Camminando sono attratta dall’altare che scuro si delinea nell’abside luminosa dicendomi che, se la meta qui sulla terra è proprio quel luogo di “scambio dei doni pasquali”[4], ci sarà un banchetto celeste ad attendermi al termine del cammino della mia vita. Il pavimento è lievemente inclinato e risale verso l’abside dove la parete di fondo del semiottagono è tagliata sulla destra da una forometria a tutta altezza che, attraverso una lastra di sottile marmo rosa di Estremoz, inonda di luce lo spazio e fa sì che sguardo e incedere si direzionino verso l’oltre. La lastra di marmo è in realtà composta di più parti sovrapposte unite e sostenute da un sistema di ganci e trefoli d’acciaio che la tengono distanziata dalla parete. Questo ne accentua l’effetto quasi immateriale rendendo quella luce come “qualcosa di natura divina”. Questa esperienza si collega, nella mia memoria, a quella del sogno di Giacobbe così come nel settecentesco dipinto di Donato Creti[5]. Nell’abside della cappella del seminario, la scala è la luce e su questa luce immagino salire e scendere gli angeli di Dio dall’altare all’oltre direzionati verso l’alto. Questi espedienti spaziali riescono a mettere in opera lo "spazio di Dio" affinché Dio sia con gli uomini, affinché sia possibile quell'«aprirsi all'altro lasciandolo in quella trascendenza insuperabile che è propria di Dio»[6]. Nel buio della sera, la luce è affidata a un gruppo di tre lampade che pendono vicine secondo un’altezza che differisce per ognuna.

 

Il percorso è punteggiato di eventi: la statua della Beata Vergine Maria, l’ambone, la Custodia eucaristica, la sede. Le sedute sono singole e permettono il loro disporsi in modo variabile, ma sono dotate di inginocchiatoio. La prima parte dell’aula è disposta con le sedie in file parallele ortogonalmente all’asse longitudinale della chiesa. Poi l’andamento s’interrompe. Lo spazio centrale è lasciato libero e le sedute sono disposte secondo il modo delle chiese monastiche, le une rivolte alle altre. Nessuno poteva essere in chiesa, ne sono certa, la porta era chiusa a chiave. Eppure c’è una donna coi capelli raccolti in una crocchia vestita di nero con uno scialle di pizzo bianco sulle spalle. Immobile. Proseguendo appare chiaro che si tratta di una statua. La statua della Vergine, in legno di tiglio policromo, è tra i fedeli e nella sua ordinarietà si differenzia da essi. Prima fra tutti, in mano regge una corona d’argento. Di fronte, sulla destra sta l’ambone. Maria è colei che per prima ha accolto la parola di Dio “Avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Essa sta tra i fedeli, li guida nell’ascolto, “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2,5), ma è diversa proprio a causa della sua immacolata concezione. L’ambone è una “scultura” in acciaio cortain, appena sopraelevato su di un gradino. Qui esso è “presenza di servizio” secondo l’accezione di Frédéric Debuyst[7]. Lo spazio accoglie una pausa. Si instaura una relazione diversa tra i luoghi e gli oggetti fino a “costruire” un vuoto attorno che è un silenzio di attesa.  Nobile e semplice, la sua forza risiede soprattutto nella sua relazione spaziale con l’intero di cui è parte. Disabitato, attende da un momento all’altro che qualcuno dia vita alla parola di Dio scritta sul libro che vi è posato. La disposizione delle sedute da questo punto in avanti cambia direzione: tre file parallele lungo ognuna delle due pareti longitudinali si fronteggiano. Il disporsi delle sedie attorno al centro "vuoto" che fa sì che, oltre al dirigersi verso l'altare e l'oltre, possiamo vedere il volto dell'Altro/altro: il primo al quale ci apriamo lasciando uno spazio vuoto, il secondo in cui Cristo ci ha detto che vedremo Lui. Nella liturgia mettiamo in opera la fiducia nella grazia dell'Altro che si manifesta. Fare spazio all'evento gratuito di Dio nella liturgia è anche dare spazio all'Altro affinché si manifesti, affinché gli uomini possano incontrarlo. L’altro, a fianco e di fronte, ci rammenta che la nostra esperienza di Dio è nel volto dell’altro. Se facciamo spazio al Padre e tendiamo verso Cristo, non possiamo dimenticarci del fratello, l'altro. Non soli e isolati al cospetto di Dio, ma nell'unione che si costituisce durante la liturgia. L’altro che sta seduto di fronte è conosciuto, è un fratello che posso chiamare per nome, posso guardare nel volto e rispondere ai suoi bisogni. Gli sguardi e i movimenti di tutti convergono verso l'altare, verso l'ambone, senza scordare l'esperienza di corpo come membra, in cui ogni membro è congiunto a quello a lui adiacente.

 

Le sedute nello spazio sono disposte in modo differente, i luoghi differenti ed esprimono, in questo modo, le diverse membra del corpo di Cristo che è la Chiesa, le “pietre vive e scelte” che qui sono messe in opera simbolicamente come una “casa di preghiera” e le sue parti[8]. Le diverse membra del corpo, fedeli e ministri[9] sono ordinatamente e organicamente giustapposti nello spazio, affinché, “quantunque differiscano di essenza e non soltanto di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro” (LG 10). Al termine delle due ali di sedute, posata sopra una sottile pedana di legno, sta la sede del sacerdote celebrante. Di legno chiaro come le altre sedute, nella forma di una sedia comune con braccioli ma leggermente più grande mette in opera la presidenza dell’assemblea e la guida della preghiera. Leggermente ruotata in direzione dell’ambone, essa fa’ anche del presbitero un ascoltatore della parola di Dio.

 

Lungo la parete destra della navata, tra le due grandi aperture velate, in una nicchia preesistente, è collocata la custodia eucaristica. L’altezza della nicchia ne permette la vista da ogni parte ed è possibile accedervi mediante una base rialzata su quattro gradini che da un lato presentano un inginocchiatoio. Una parete di legno traforato ad albero sostiene uno scrigno chiuso appena inciso con due aquile in volo. L’adorazione eucaristica di un gruppo di persone si svolge disponendosi sul lato opposto utilizzando le sedute dal lato dell’inginocchiatoio. Il parapetto, realizzato con barre in acciaio poste di piatto, e l’assenza dello schienale nelle sedute che stanno di fronte, ne dichiarano l’eccezione di un luogo che interrompe il lento fluire dello spazio verso l’altare. Una “lampada particolare”[10] in acciaio spazzolato è appesa alla parete.

 

La navata si “chiude” con l’arco trionfale a ogiva con l’imposta piuttosto bassa. In asse, circa a metà della parete piena rimanente, un foro passante di forma rettangolare ospita una piccola campana. Proprio sotto l’arco trionfale, emerge, dal pavimento e dall’acqua, l’altare: una lastra di granito grigio scuro, levigata superiormente e spaccata in modo irregolare nella parte inferiore, poggia su sette sottili cilindri in acciaio inox. Lo specchio d’acqua sottostante ha le stesse dimensioni della mensa e da esso emerge una parte di pietra del pavimento spaccata così come la parte inferiore della mensa. Le parole del Prefazio della dedicazione di un nuovo altare sono qui messe in opera come un testo costruito: “Qui i fedeli, dalle sorgenti di acqua viva che sgorgano da Cristo, pietra spirituale, attingono il tuo Spirito per diventare offerta santa, altare vivente”. Alla sua sinistra si erge una croce astile di legno che termina nella forma di una croce celtica col Risorto al centro.

 

Tutto procede, trasformandosi, verso e dall’altare e il suo bema, un centro vivo anche per la presenza dell’acqua in lieve movimento: qui siamo radunati, nutriti, e costituiti un cuor solo e un’anima sola.[11] Tutto converge verso il centro dello spazio verso questo luogo che si disegna nitido sullo sfondo luminoso.

 

La copertura, da avvolgente volta a botte in calcestruzzo, muta in una struttura a padiglione  che copre il semiottagono mediante lucida lamiera ondulata che riflette la luce proveniente dalle finestre a ogiva preesistenti e dal grande taglio di luce verticale: il Corpo di luce.  Il tutto appare più immateriale, leggero aperto verso l’alto e l’oltre; la luce muta il suo ruolo e toglie peso alla materia affinché  lo spazio sia abitato dal Totalmente altro. Giunti al termine del percorso terreno all’altare, dopo un pendio lieve col quale abbiamo superato un dislivello di trenta centimetri, godiamo della luce divina pregustando il non-ancora. Lo sguardo ne è attratto fin dall’inizio fin da quando, entrati nel bosco intricato, si scorgeva in fondo all’edificio. Le tenebre e la luce sono così unite da questo percorso che è metafora del nostro essere pellegrini sulla terra in attesa del Cristo che verrà. Le sedute disposte entro l’abside non interrompono il fluire verso l’oltre, poiché sono posizionate lasciando libero lo spazio al centro in due ali che si fronteggiano; sono utilizzate in determinate occasioni con piccoli gruppi. Due tavole dipinte sono racchiuse da ante, l’Assunta e l’Annunciazione e sono collocate sulla parete dell’arco trionfale. Nell’abside, sulla sinistra, cinque tavole rappresentano Nostra Signora della tenerezza in cui la Madre mostra il Figlio. Sulla destra, racchiusa in un’edicola lignea traforata con un motivo a foglie, è collocata una statua lignea dell’Immacolata.

Uscita, salgo al piano superiore e, sull’ampio vestibolo, fuoriesce un volume ligneo la cui struttura di sostegno verticale si mostra come nervature verticali. Il pavimento di questo “tunnel” d’ingresso è in salita, ma di una pendenza molto sensibile. Si entra in una specie di ventre di balena: un passaggio dai connotati intensi, una soglia potente. In fondo alla “bocca”, si vede la struttura lignea verticale che vela e svela, dapprima  con alcuni elementi, la cappella stessa e più oltre, l’interno della chiesa. Per accedere alla cappella il percorso è intricato finché ci si trova entro una “radura” il cui centro resta libero e tutt’intorno si dispongono l’altare, l’ambone, la sede e gli sgabelli. Sulla destra, facendosi spazio tra i fusti di questi alberi stilizzati, s’inerpica una scala, un’altra scala di Giacobbe che non conduce a nulla se non in alto e oltre.

 

L’altare, entrando a sinistra, emerge dal pavimento con la base lapidea a forma di parallelepipedo irregolare. Questo è il prolungamento dell’elemento verticale che al piano inferiore accoglie il luogo dell’ascolto. Sopra vi è posata una mensa lignea. L’ambone è posto appena all’interno della “radura”, ortogonalmente all’altare, col lettorile disposto a favore di chi entra. La sede, costituita da una seduta uguale a quelle della chiesa sottostante, ma con l’aggiunta di uno schienale pieno a foglia oro, è sulla destra, allineata con l’ambone dietro la linea dell’altare. Tutt’attorno alcuni sgabelli e un armonium stanno avvolti dai fusti di questa foresta che appare come un utero avvolgente. Questa cappella è per gli studenti del seminario minore e ben si addice, con questa sua spazialità fortemente liminale, a quella che l’antropologia culturale definirebbe una situazione di “marginalità”, cioè una situazione liminale che si protrae nel tempo come scelta di vita.

 

Esco, ripercorrendo a ritroso il cortile interno, finché mi ritrovo nell’assolata via che cela alla vista diretta questo spazio che posso definire insieme bello, potente ed efficace, capace di immettere nell’esperienza dell’incontro con l’Altro sperando di potervi tornare per celebrare con altri la liturgia.

 

 

[1] Le opere pittoriche sono di Lisa Sigfridsson; le sculture di Asbjørn Andresen; consulenza liturgica e committenza, Joaquim Félix Carvalho, Avelino Amorim.

[2]Schwarz, Rudolf, Costruire la chiesa. Il senso liturgico nell'architettura sacra, a cura di Roberto Masiero - Franco De Faveri, Brescia, Morcelliana, 1999, tit. orig. Vom Bau der Kirche, Würzburg, Werklund-Verlag, 1938, p. 213; fig. 65.

[3]Schwarz, Rudolf, Costruire la chiesa. Il senso liturgico nell'architettura sacra, a cura di Roberto Masiero - Franco De Faveri, Brescia, Morcelliana, 1999, tit. orig. Vom Bau der Kirche, Würzburg, Werklund-Verlag, 1938, p. 162; fig. 51.

[4] Preghiera sulle offerte del venerdì fra l’Ottava di Pasqua.

[5] Gallerie di palazzo Barberini Corsini

[6] Bonaccorso, Giorgio, Il rito e l'altro. La liturgia come tempo, linguaggio e azione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2012 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica, 13), p. 6.

[7] L'ambone. tavola della parola di Dio. Atti del III Convegno liturgico internazionale, Bose, 2-4 giugno 2005, a cura di Goffredo Boselli, Magnano, Qiqajon Comunità di Bose, 2006, p. 25.

[8] cf. Prefazio, Il mistero del tempio di Dio.

[9] “Sacerdozio comune dei fedeli e sacerdozio ministeriale o gerarchico”, cf. LG 10.

[10] OgMR, 316.

[11] Cfr. Preghiera eucaristica III.